In città il 64,9% delle donne lavora. Le madri però sono poche. Un problema di welfare.
Esiste una città in Italia dove lavora il 64,9% delle donne, dove è consolidato il modello di coppia dual earners («si lavora in due»), dove il breadwinner (chi porta il ”pane” a casa) non sempre è l’uomo.
Questa città, più europea che italiana, è Milano.
Roberto Cicciomessere, Lorenza Zanuso, Anna Maria Ponzellini e Antonella Marsala nel loro paper Il mercato del lavoro milanese in un’ottica di genere – sviluppato dal progetto EQuIPE 2020 di Italia lavoro per conto del ministero del Lavoro – raccontano uno stile di vita unico nel panorama nazionale.
Il rapporto tratteggia un capoluogo lombardo dove le donne sono libere di scegliere in che ambito lavorare.
NON SOLO RUOLI TRADIZIONALI.
«Diversamente da Stoccolma, le donne, soprattutto quelle più giovani, non svolgono solo i tradizionali lavori altamente femminilizzati nella pubblica amministrazione, nella sanità e nella scuola, ma anche quelli che in precedenza erano appannaggio esclusivo degli uomini, come i tecnici dell’organizzazione e dell’amministrazione, dei rapporti con i mercato, delle attività finanziarie e assicurative, come funzionari di banca, agenti assicurativi, periti, agenti di borsa e cambio, gli specialisti in discipline linguistiche, letterarie e documentali, per esempio scrittori, giornalisti, interpreti e traduttori a livello elevato, linguisti, filologi, archivisti, conservatori di musei, gli specialisti in scienze giuridiche, cioè avvocati, e i tecnici informatici, telematici e delle telecomunicazioni. La stessa quota di donne libere professioniste sta raggiungendo velocemente quella degli uomini».
NATALITÀ FERMA AL PALO.
Ma se da un lato dal dossier emerge uno stile di vista più avanzato che nel resto della penisola, per numero di donne impiegate e per livelli di stipendi raggiunti e per ambiti professionali, dall’altro lato i dati sono perfettamente in linea con trend nazionale.
«Il tasso di natalità anche a Milano è fermo al palo», spiega a Lettera43.it la sociologa Anna Maria Ponzellini.
«Qui moltissime donne lavorano, ma di queste pochissime, meno della metà, hanno figli. In Italia il rapporto positivo più attività/più fecondità nei Paesi del Nord Europa non funziona».
Perché? I motivi sono diversi. «Si entra tardi nel mercato del lavoro, perché il liceo dura un anno in più rispetto ad altri Paesi e i prof universitari ancora credono che un percorso lungo di studio sia migliore», riflette Ponzellini.
IL PRIMO FIGLIO A 32-34 ANNI. Insomma il mistero dei bambini “non nati” a Milano si spiega all’”italiana”.
«Si studia a lungo, si impiegano tanti anni per consolidare una posizione lavorativa e una retribuzione decente. A 30 anni le ragazze sono ancora in una fase di investimento. Così il primo figlio, se arriva, lo fa tra i 32 e i 34 anni. Tardi, per riuscire a farne un secondo», commenta la sociologa.
Milano non è una città abbastanza children-friendly
Inoltre «la convinzione che una buona occupazione e ben remunerata sia compatibile con la maternità, sicuramente confermata dai fatti a Stoccolma, dove quasi tutte lavorano nel pubblico impiego, trova scarso riscontro tra le broker, le dirigenti delle case di moda e le libere professioniste di Milano».
ASILI NIDO TROPPO COSTOSI. Osserva Lorenza Zanuso: «Milano, nonostante una dotazione dei servizi per l’infanzia pubblici e privati più ampia rispetto alla media italiana, non è una città children-friendly».
Secondo Ponzellini «se le coppie milanesi avessero a disposizione asili nido gratuiti o voucher di 400 euro da spendere per la babysitter probabilmente i dati sarebbero diversi» e non solo a Milano.
«All’estero i neo-genitori possono prendere congedi prolungati, da noi invece massimo 11 mesi, divisi tra madre e padre e al 30% dello stipendio. Non è convincente per chi è in carriera», continua la sociologa.
QUESTIONE DI RETRIBUZIONE. «I servizi per le famiglie non devono essere di più, ma gratuiti o semi-gratuiti: è inutile che aprano più asili se mantengono questi costi così alti. Il liceo è gratuito, ed è considerato d’élite. Il nido è tutt’altro che d’élite, ma non è gratuito. Bisognerebbe ripartite i costi», riflette Ponzellini.
«La maternità e il lavoro sono collegati alla retribuzione. A Milano la quota di lavoratori qualificati è alta, ma, tra le donne, si tratta di impiegati, di quadri ce ne sono pochi, di dirigenti ancora meno. E i servizi sostitutivi al lavoro familiare costano di più della retribuzione stessa delle possibili mamme», spiega Roberto Cicciomessere.
FRANCIA, I VOUCHER FUNZIONANO. «Nei Paesi in cui abbiamo una natalità intorno a due figli per donna, come in Francia, c’è una politica nei confronti delle famiglie rivolta a tutti, a prescindere dal reddito. I voucher permettono di abbattere di un terzo il costo dei servizi di cura».
Insomma, per veder crescere il numero di nati bisognerebbe offrire servizi di cura gratuiti o semi-gratuiti.
Questo permetterebbe di vedere più donne nel mercato del lavoro. La cosa bella è che tutti ne trarremmo benefici. Svegliamoci.
Articolo a cura di Francesca Guinand dal lettera43.it